da notav.info
Per non finire per chiamare la guerra pace e la pace guerra
Il 22 maggio prenderà il via il processo a nostro carico, a poco più
di un anno dal sabotaggio di cui siamo accusati, per ribadire che lo
Stato c’è ed è efficiente.
Sarà una grande giornata, un grande evento, di quelli in cui si
possono esibire le toghe e le divise delle grandi occasioni. Se fino ad
oggi a finire sotto processo erano stati i fatti specifici, non le
legittime ragioni di una valle, ora che queste hanno cozzato con le
ragioni di Stato non paiono più così legittime.
Ai magistrati è stato affidato il compito per conto del popolo di
amministrare la giustizia, di appioppare a destra e manca mesi o anni di
prigione per porre rimedio ai mali che affliggono la società. A loro
tocca rendere la realtà e le nostre azioni codificabili penalmente.
In alcuni momenti particolari, tuttavia, quando giovani scapestrati od
operai organizzati o valligiani testardi smettono di credere alle
narrazioni dei cantastorie di turno e non temono più i moschetti o i
randelli dei gendarmi, gli uomini di di legge devono abbandonare la toga
e impugnare la penna dello storico. Tracciare una bella linea ed
affermare risoluti che tutto ciò che è stato è terrorismo, frutto di
cattive passioni, causato da persone deviate, poco inclini a vivere come
Dio comanda. Tirare una decisa pedata in faccia a queste canaglie che
hanno osato alzare la testa, ricacciarli tra i rifiuti della storia.
Cancellare tutto in modo che non vi sia più testimonianza di chi è
caduto nella tentazione della ribellione. Nei luoghi più significativi
della resistenza si è raggrumata è usanza poi che sorga nei templi del
potere.
Nel 1871 dopo aver massacrato i comunardi fino a tingere di rosso le
strade di Parigi, l’imperatore Napoleone III fece costruire sulla
collina di Montmartre, luogo simbolo per gli insorti, l’imponente
basilica del Sacré Coeur così da bonificarla. Allo stesso modo la val
Clarea, culla della libera repubblica della Maddalena, è stata
devastata e trasformata in un minaccioso fortino militare, tempio del
progresso. Poco importa quanto effettivamente procedano i lavori, se la
talpa scavi o se stia rintanata in un capannone, quello che conta è che
i frequentatori dei castagneti valsusini restino stupefatti di fronte a
tale magnificenza, si sentano sopraffatti e provino rassegnazione. Le
stesse sensazioni che vorrebbero farci provare quando varchiamo le
soglie del Palagiustizia. Un edificio possente, con un’architettura
sicuramente ispirata ad un romanzo di Kafka, posto al centro della
città come monito ai rei dell’inesorabilità della legge. Certo poca
cosa da quando accanto sorge la figura slanciata del grattacielo
Intesa-Sanpaolo. Chi avrà l’onore di sedere tanto in alto potrà
dalla stessa finestra tener sott’occhio la distribuzione delle pene e
volgendo lo sguardo più a ovest si augurerà di scorgere la
devastazione di una valle.
Godendo di parecchio tempo libero offertomi dalla reclusione mi sono
spesso interrogato sul motivo di una repressione tanto feroce e
spettacolare. Non credo sia dovuto al grave danno che la lotta avrebbe
arrecato, come vorrebbe il codice. Non penso sia neppure dovuta al fatto
che un’assemblea popolare abbia sdoganato il sabotaggio come pratica
legittima. La lotta No Tav fa paura perché è riuscita a dare
concretezza a quel “no”. Quando ha trovato la strada sbarrata è
riuscita a scovarne di nuove e quando queste risultavano impraticabili
non ha esitato a inerpicarsi sui sentieri. È riuscita ad evitare gli
ostacoli oltre i quali non erano riusciti ad andare i movimenti di
protesta da più di 30 anni, come la sterile diatriba
violenta-nonviolenza.
Il problema non è capire se un’azione è violenta oppure no, ma
quali parametri la rendono tale e chi determina questi parametri. I
giornali, nelle varie evoluzioni che è in grado di offrirci la tecnica,
oltre ad avere la capacità di descrivere una realtà conforme ai voleri
dei propri finanziatori, son sempre di più il mezzo con cui si creano e
si diffondono opinioni, giudizi e indignazioni. L’omicidio di due
pescatori disarmati diventa un atto di mirabile eroismo, sequestrare
60000 fra donne e uomini nelle patrie galere un atto di amorevole
rieducazione, il pestaggio di un migrante mentre sta distruggendo la sua
gabbia in un Cie è l’occasione per denunciare i pesanti turni degli
operatori di polizia, i lacrimogeni e le botte distribuiti su in valle
nient’altro che lezioni di democrazia.
Chi distrugge le macchine con cui si vorrebbe devastare un territorio,
chi prova a cacciare a sassate i carabinieri e la polizia che occupano
militarmente un luogo liberato compie atti gravissimi, di una violenza
inaudita, con evidente finalità terroristica. Ogni gesto di ribellione
sia individuale sia collettivo è stigmatizzato senza alcuna paura di
cadere nel ridicolo. A dar retta a questi novellatori da quattro soldi
finiremmo per chiamare la guerra pace e la pace guerra.
Nell’evolversi della lotta il ruolo dei mezzi d’informazione e la
loro complementarietà al sistema Tav si è fatto di un’evidenza
imbarazzante. Se non è stato possibile discutere con loro
sull’utilità dell’opera, lo sarà ancor meno su quali mezzi siano
più idonei per bloccarla.
Abbandonare la dialettica violenza-nonviolenza poiché qualsiasi azione
che rechi con sé una critica radicale verrà osteggiata o peggio ancora
derisa e snaturata. Discutere invece di mezzi e fini. Da una parte la
costruzione di una ferrovia come vettore di una civiltà fondata sullo
sfruttamento del capitale umano, sul saccheggio delle risorse,
sull’estrazione di profitto ad ogni costo, dall’altra parte noi
consapevoli da tempo che la testimonianza non è più sufficiente, ma
con un bagaglio enorme di idee e pratiche alcune vecchie di decenni
altre inventate ex novo alle pendici del Rocciamelone, alcune più
efficaci altre strampalate. Non frutto di gruppi paramilitari o
neo-guerriglieri come vorrebbe la letteratura questurina, ma espressione
di una comunità che si scopre nella lotta. Una comunità in marcia e in
lotta, perché solo quando il conflitto sociale esplode, quando cadono i
veli e le contraddizioni della società non possono più essere
tollerate che gli individui possono costruire rapporti non mediati dalla
merce ma costruiti dalla complicità e dalla condivisione. Per questo
motivo oggi siamo accusati di terrorismo e per lo stesso motivo non temo
questo processo né le mura e le sbarre della prigione asettica in cui
mi hanno sbattuto.
Approfitto per mandare un abbraccio furioso ai miei tre compari di
sventura e a tutti gli amici che in ogni modo mi hanno scaldato il cuore
in questi mesi.»
Claudio Alberto