Lo stato di emergenza in Francia

85334c139d05a6092198ffec36abee91-U202544327848J1F--835x437@IlSole24Ore-WebDalla sezione “Controrivoluzione, repressione e solidarietà di classe” del numero 2 della rivista Antitesi.

Lo stato di emergenza in Francia.
La stretta autoritaria dopo gli attentati di novembre.

Siamo in guerra”. È con queste parole che il giorno successivo agli attacchi dello scorso novembre avvenuti a Parigi, il governo ha proclamato lo stato d’emergenza.

Secondo la legge francese, lo stato di emergenza può essere dichiarato dal consiglio dei ministri per decreto e andava applicato solo per 12 giorni in tutto o in parte del territorio metropolitano o dei dipartimenti d’oltremare, nei casi di pericolo imminente risultanti da gravi problemi di ordine pubblico, o nel caso di calamità, epidemie o eventi di eccezionale rilevanza e gravità. Ma una settimana dopo gli attentati, l’assemblea nazionale francese ha approvato il disegno di legge del governo per la possibile proroga dello stato d’emergenza per periodi di tre mesi e così è puntualmente avvenuto. Attualmente, infatti, è stato prolungato fino al prossimo 26 maggio.
Inoltre, è già stata in parte discussa in parlamento la modifica delle previsioni relative allo stato di emergenza nella costituzione, per aggravarne la portata sopratutto per quanto riguarda la durata, visto che la nuova normativa dovrebbe allungarne l’applicazione a periodi di sei mesi1.
Lo stato di emergenza prevede il trasferimento di una serie di poteri repressivi alle autorità amministrative, senza alcun intervento dei giudici penali. Il ministro dell’interno e i prefetti possono quindi decidere, a carico di singoli, il ritiro del passaporto, la restrizione della libertà di circolazione, fermi di polizia fino a sei giorni (quando normalmente non avrebbero potuto durare più di due), arresti domiciliari, obbligo di permanenza nel proprio domicilio per dodici ore al giorno, perquisizioni, obbligo di firma per tre volte al giorno presso commissariati di polizia e l’acquisizione coattiva di dati informatici. A carico di collettività, le autorità amministrative possono decidere divieti di assemblea, di manifestazioni pubbliche e lo scioglimento autoritativo di organizzazioni. Per gestire l’ordine pubblico, è prevista la determinazione di zone interdette alla circolazione, la possibile indizione del coprifuoco, la chiusura di strade, scuole e luoghi pubblici.
Nelle prime ore subito dopo gli attentati e la successiva dichiarazione dello stato di emergenza, è iniziato un giro di vite repressivo che ha riguardato le comunità islamiche, i quartieri abitati perlopiù da immigrati e si è esteso a tutte le realtà politiche e sociali ritenute ritenute contrastanti la cappa della cosiddetta “unità nazionale contro il terrorismo”. Ciò a voluto dire condurre continue operazioni di polizia, che in base alla normativa dello stato d’emergenza vengono imbastite semplicemente su ordine delle autorità amministrative e di governo e non più nell’ambito di procedimenti penali vagliati dalla magistratura. Le stesse modalità di conduzione di tali operazioni erano volte a creare un clima intimidatorio da “guerra interna” contro gli oppositori, con armi dispiegate, sbirri mascherati con passamontagna, intere zone urbane militarizzate, quartieri sigillati attraverso postazioni di polizia e militari, secondo lo stile dei check point israeliani. Diversi posti occupati sono stati sgomberati con l’utilizzo delle unità d’élite della polizia, le Recherche Assistance Intervention Dissuasion (Raid), comunemente chiamate “teste di cuoio” e utilizzate di solito esclusivamente per operazioni antiterrorismo.
Un altro aspetto importante che riguarda lo stato di emergenza, è la sua natura preventiva: se prima era necessaria una prova giuridica che l’attività considerata criminale fossero state effettivamente svolte, ora invece ciò che si punisce è il comportamento generale delle persone, qualora venga considerato sospetto. Ad esempio, può essere sottoposto a misura di detenzione domiciliare chi frequenta moschee dove predicano “imam estremisti” o che ha parenti recatisi a combattere in Siria, finendo per mettere sotto accusa soprattutto le usanze e le pratiche religiose di intere comunità. Senza dimenticare il forte impatto che questo comporta in termini di ricadute nei quartieri e nel tessuto sociale, poiché chi è sottoposto a tali misure viene additato come “terrorista”, rendendo ancora più aspro il rapporto tra proletariato immigrato e quello francese e la gestione stessa dei ghetti periferici, nei quali la gente vive in condizioni di grave precarietà e instabilità sociale.
Anche i ricorsi contro i provvedimenti amministrativi dei prefetti e del ministero degli interni (peraltro interdetti nel caso di perquisizioni) sono vagliati dal giudice amministrativo, non da autorità giurisdizionali penali e dunque la loro legittimità dipende da generiche esigenze di sicurezza, non dall’eventuale commissione o meno di reati. Gli accertamenti svolti dalle autorità per individuare le persone sospette sono secretati – spesso si tratta di veline dei servizi segreti – privando gli avvocati dell’accesso ad eventuali atti di indagine, come intercettazioni od altro, che possono essere svolti al di fuori di ogni controllo giurisdizionale.
Il bilancio delle prime due notti dopo gli attentati era di quasi 300 perquisizioni, presso 19 dipartimenti, con 60 fermi, 31 armi sequestrate e la disposizione di 118 misure di arresti domiciliari. A inizio dicembre, il ministro degli interni Cazeneuve forniva le cifre di 2235 perquisizioni, 232 arresti, 334 armi sequestrate e tre moschee chiuse. A inizio marzo le perquisizioni erano arrivate a 3 mila.
D’altronde, che lo stato d’emergenza significasse repressione verso ogni forma di opposizione e antagonismo politico e sociale, è stato chiaro fin dalle cariche e gli arresti per piegare le mobilitazioni contro il forum imperialista sull’emergenza climatica, tenutosi a Parigi tra il 30 novembre e l’11 dicembre 2015.
La lotta al “terrorismo” si conferma dunque come strumento per autorizzare ogni tipo di deriva autoritaria, creando ulteriori divisioni e paure tra la popolazione e alimentandone la mobilitazione reazionaria in senso principalmente xenofobo e islamofobo, ma anche rispetto al consenso alle politiche di guerra imperialista sul fronte esterno e di compattamento forzato della società sul fronte interno, attraverso il tentativo di ripulirne le componenti ribelli o semplicemente non allineate. Misure e clima intimidatorio più volte invocato dall’estrema destra di Marine Le Pen e che adesso il governo sta mettendo in atto con il beneplacito di tutte le forze politiche. Ovviamente ciò ha dato un’inedita agibilità politica ai gruppi fascisti, che stanno cavalcando l’onda della mobilitazione reazionaria.
All’interno di tale dinamica a farne le spese sono proprio le classi popolari che in questi anni sono state più colpite dalla crisi del sistema capitalista e dalla violenza delle politiche d’austerità imposte dallo stesso governo, il quale attraverso lo stato d’emergenza ridefinisce le strategie di controrivoluzione preventiva in una situazione sociale potenzialmente esplosiva.

Un po’ di storia
Lo stato di emergenza in Francia ha le sue origini intrecciate con il colonialismo ed è stato usato  per tre volte. Viene introdotto nell’ordinamento giuridico francese il 3 aprile 1955 durante la guerra di Algeria, conflitto che la Francia non ha mai voluto riconoscere come tale, definendolo, come fanno tuttora gli imperialisti con le loro guerre, come “operazione di lotta al terrorismo”. L’approvazione della legge rispondeva all’esigenza di instaurare uno stato d’eccezione senza dover decretare lo stato d’assedio che appariva, nel contesto della situazione  di guerra coloniale, “politicamente inopportuno”: implicava, infatti, riconoscere un’organizzazione militare alla Resistenza Algerina e, di conseguenza, ammettere che il paese arabo fosse un territorio di guerra distaccato dalla Francia, laddove invece il governo francese voleva rinsaldare la continuità amministrativa con il territorio metropolitano.
La legge del 1955 faceva, dunque, uscire da questo stallo politico iscrivendo un nuovo stato d’eccezione nel diritto francese che fosse applicabile a qualsiasi porzione del territorio nazionale. In questo modo era possibile aggirare qualsiasi riferimento alla condizione contingente dell’Algeria, sebbene la sua prima applicazione riguardò esclusivamente il territorio algerino.
Solo tre anni più tardi però, nel maggio 1958, lo stato d’emergenza fu applicato, per due settimane, in quello metropolitano a seguito del colpo di stato nel paese nordafricano; un fatto che mostrava quanto la questione algerina avesse investito il cuore politico stesso del paese.
Sarà dunque Charles De Gaulle, primo presidente della Quinta Repubblica, a voler riformare nel 1960 le procedure di applicazione della legge del 1955, mantenendo però fra i due dispositivi giuridici una differenza fondamentale: lo stato d’emergenza, al contrario di quello di assedio, accorda poteri straordinari all’esecutivo e non all’esercito.
La seconda volta viene applicato durante l’insurrezione indipendentista in Nuova Caledonia (una colonia francese a sud delle coste australiane) e la terza volta venne applicato nel 2005 durante le rivolte nei quartieri proletari a Parigi e in altre città.
Oggi, di fronte al nuovo scenario di tendenza alla guerra imperialista, del riflesso che questa comporta sul fronte interno, del suo rimbalzo in casa, con la minaccia del “terrorismo” internazionale, per la cricca di Hollande si è aperta l’occasione e la necessità storica di rimodellare e riattualizzare questo arnese arrugginito della politica repressiva e reazionaria francese.

La Francia come laboratorio repressivo
Oggigiorno la Francia si può considerare un laboratorio di sperimentazione perché tutto ciò che si sta attuando nel paese d’oltralpe diventa poi patrimonio comune degli altri paesi europei, nel tentativo di omologare e coordinare i diversi apparati repressivi. Lo stato di emergenza è paragonabile a uno stato di controllo, rappresenta la tendenza a orientarsi verso il cosiddetto “security state”. Questo raffigura una necessaria cornice alla situazione attuale, caratterizzata dalla grave crisi economica, dalla conseguente ristrutturazione economico-sociale e dalla ferocia delle controriforme antiproletarie portate avanti dagli esecutivi dei diversi paesi. Morto il “welfare state” che per decenni aveva rappresentato la generale strategia di controrivoluzione preventiva in Europa – per integrare le masse popolari nell’egemonia del grande capitale – si passa ad un modello di “security state” dove prevale la dimensione poliziesca e militare dell’ordine interno e la paranoia securitaria è funzionale a trovare consenso allo Stato nella popolazione. Viene così giustificata la stretta sulle libertà individuali e collettive e rispetto agli spazi di agibilità politica extraistituzionale, proprio mentre le potenze europee e gli Usa conducono interventi politici e militari in tutto il mondo, paradossalmente in nome dell’esportazione della “libertà e democrazia”.
La repressione è la dimensione nella quale avanza il cosiddetto spazio giuridico europeo.  Un esempio in tal senso consiste anche nel mandato di cattura europeo che per la prima volta è stato usato per reati di piazza, tentando, da parte dello Stato italiano, di mettere le mani sui giovani studenti greci che hanno partecipato alla manifestazione del 1° maggio 2015 a Milano contro l’Expo. Ma la dimostrazione più lampante viene dalle politiche europee in materia di immigrazione, rispetto alle quali la chiusura delle frontiere da parte dei paesi dell’est sta imponendosi a livello comunitario, così come vengono ampliati gli ambiti di intervento dell’agenzia Frontex, di sorveglianza dei confini esterni dell’Ue, e le misure di detenzione amministrativa, con l’istituzione dei cosiddetti hotspot riservati ai richiedenti asilo. All’interno di tali strutture è previsto che operino non solo le forze di polizia locali, ma la stessa Frontex, che condurrà le espulsioni, l’agenzia European Asylum Support Office (Easo), che gestirà le richieste di asilo, e Europol e Eurojust che gestiranno indagini e sicurezza
Il caso francese rischia, da questo punto di vista, di essere precursore e laboratorio sperimentale di nuove misure repressive, che poi saranno estese e normalizzate anche dagli altri paesi imperialisti, visto anche il procedere della guerra sul piano globale, con nuovi interventi militari come quello in Libia e con la prospettiva che tutto ciò produca tragiche ricadute in Europa, con attentati e migrazioni di massa. Qui in Italia dobbiamo da un lato tenere alta l’attenzione su quanto sta avvenendo nel paese confinante, dall’altro pensare a rafforzare la solidarietà militante e il contrasto alla repressione borghese, per preventivare ulteriori salti autoritari anche nel nostro paese.
Non dobbiamo, inoltre, cadere nel pessimismo difronte alla reazione e agli attacchi degli apparati governativi, giudiziari e di polizia degli Stati imperialisti. Fin dalla sua proclamazione, lo stato di emergenza si è trovato a fronteggiare diverse situazioni di resistenza, tra cui mobilitazioni di massa di lavoratori, come quelle condotte a gennaio da tassisti, insegnanti e dipendenti pubblici. Oggi, il clima reazionario nel paese è infranto dalle mobilitazioni contro il nuovo progetto di controriforma del lavoro, che stanno portando in piazza centinaia di migliaia di giovani e proletari. Se la lotta si estende alle masse e i comunisti e i proletari coscienti rimangono fermi nello svolgere un costante, fermo e politicamente chiaro lavoro di contrasto alla repressione, allora quest’ultima non può che ritorcesi, in fin dei conti, contro chi la scatena.

1 Il dibattito parlamentare ha riguardato anche l’introduzione della normativa che prevede la possibilità di privare della nazionalità francese i cittadini che hanno un doppio passaporto in caso di condanna definitiva per terrorismo. Questo provvedimento riguarderà anche chi è francese dalla nascita. Si tratta di una misura evidentemente ispirata ad analoghe previste dal diritto israeliano contro i palestinesi dei territori del ’48, ed infatti in questa maniera l’ordinamento francese inserisce al proprio interno dei meccanismi di apartheid e di giustizia coloniale anche contro gli immigrati di seconda generazione.

Siti consultati:

www.easo.europa.eu
www.fanpage.it
www.ilgazzettino.it
www.ilgiornale.it
www.ilmanifesto.info
www.informa-azione.info
www.internazionale.it
www.inventati.org
www.osservatoriorepressione.info
www.piattaformacomunista.com
www.polisblog.it
www.rainews.it
www.secoursrouge.org

 

Questa voce è stata pubblicata in Controinformazione Internazionale e contrassegnata con , , . Contrassegna il permalink.