Di seguito pubblichiamo la trascrizione di un intervento dell’Assemblea di lotta “Uniti contro la repressione”, realizzato durante un’iziativa sulla questione dei prigionieri palestinesti che si è tenuta lo scorso 16 agosto a Viareggio organizzata dal comitato Ricordare la Nakba e dal Fronte Palestina.
“Non una singola casa sarà costruita in una colonia sionista come prezzo per la mia libertà.”
Ahmad Sa’adat
Segretario Generale del Fronte di Liberazione per la Palestina
Ringraziamo i compagni che hanno organizzato questa festa per l’importante dibattitto della giornata di oggi incentrato sulla questione dei prigionieri palestinesi. Ringraziamo anche per l’opportunità che ci è stata data di poter intervenire alla discussione.
La Resistenza del popolo palestinese rappresenta un’avanguardia della lotta contro l’imperialismo. In questo senso, i prigionieri ne sono la massima espressione e la loro Resistenza è parte integrante della lotta di tutto il popolo, che combatte da più di sessant’anni. Le carceri costituiscono la trincea della Resistenza perché al loro interno i prigionieri hanno sempre dato dimostrazione di grande unità, riflesso dell’unità che la Resistenza ha sul campo di battaglia. Essi hanno combattuto ogni soluzione che barattasse la loro libertà con concessioni al nemico sionista e, se vi sono state scarcerazioni, sono state frutto della lotta, come nel caso della cattura e poi rilascio di Shalit. Che la questione dei prigionieri sia di fondamentale importanza è dimostrato anche dalle recenti condizioni poste dalla Resistenza per poter accettare la tregua con Israele, ovvero proprio la liberazione di tutti i palestinesi che sono stati ri-arrestati dopo lo scambio ottenuto con Shalit.
Il conflitto palestinese conta migliaia di prigionieri e questo è in rapporto al contesto preciso: infatti, si tratta di una situazione di occupazione militare e di guerra dove la Resistenza continua ad avanzare. Alcuni dati aggiornati: attualmente il numero dei prigionieri palestinesi è salito a più di 6200, considerando che Israele ha arrestato oltre 1000 palestinesi da quando sono scomparsi i tre coloni il 12 giugno scorso e ha arrestato 120 palestinesi solo nella prima settimana di agosto; l’esercito israeliano continua di media ad arrestare circa 35 palestinesi al giorno, principalmente in Cisgiordania, anche se nei mesi scorsi sono stati arrestai 350 palestinesi tra Gerusalemme e nei territori del ‘48; di questi arresti circa 200 sono bambini e 13 sono parlamentari eletti democraticamente, portando a 26 il numero di parlamentari imprigionati; l’esercito inoltre ha arrestato 60 ex prigionieri che erano stati rilasciati con “l’accordo Shalit”. Tutti i detenuti palestinesi sono considerati come prigionieri politici (donne, uomini e bambini indistintamente).
Ci sembra molto importante in questo contesto parlare di Hamad Sa’adat, Segretario Generale del Fronte Popolare di Liberazione della Palestina, proprio perché, in questa situazione di guerra, la Resistenza vede incarcerate anche le sue avanguardie politiche. Il 15 gennaio 2002, Sa’adat, con l’accusa di essere responsabile dell’omicidio del ministro israeliano Zeevi, venne arrestato con altri quattro compagni per ordine di Yasser Arafat. Quest’ultimi, dopo pochi mesi, furono processati in un tribunale militare dall’Autorità Nazionale Palestinese e trasferiti in una prigione speciale a Gerico (Cisgiordania) sotto il controllo di osservatori inglesi e americani. Nel maggio dello stesso anno, anche Sa’adat fu rinchiuso a Gerico. Nel gennaio del 2006, con la vittoria elettorale di Hamas nella striscia di Gaza, si aprì la possibilità che Sa’adat venisse liberato, così il 14 marzo Israele con un’incursione militare assaltò la prigione di Gerico e, dopo ore di assedio, Sa’adat e gli altri compagni furono sequestrati e tradotti in una prigione nel deserto del Negev.
Questo dimostra chiaramente la complicità dell’Anp, che ancora oggi riveste un ruolo di collaborazionista, rendendosi responsabile di decine e decine di arresti e della feroce repressione portata avanti nella Cisgiordania, complementare all’opera dei soldati sionisti. Così come non va dimenticato che esistono numerose tipologie di prigioni, tra cui quelle dislocate nei territori del ’48, sotto il controllo israeliano, e in particolare nel deserto del Negev, in cui sono detenuti oltre il 40% dei prigionieri palestinesi.
La questione della prigionia politica e dell’isolamento come forma di annientamento fisico, psicologico e politico del detenuto non è una prerogativa solo dello stato di Israele, ma è una prassi usata a livello internazionale dall’imperialismo ed esiste anche qui all’interno del “democratico” occidente.
Un compagno che vogliamo ricordare è proprio Georges Abdallah, comunista libanese che prima militò tra le fila del Fplp e poi diede vita alle Frazioni Armate Rivoluzionarie Libanesi (Farl), cercando di contrastare l’occupazione del Libano e la distruzione dei campi dei profughi palestinesi (vedi Shabra e Shatila). Georges fu arrestato nel 1984 a Parigi con il pretesto di un documento falso, ma da quel momento è tutt’ora li rinchiuso, nonostante abbia finito di scontare la sua pena già da anni. Naturalmente Georges non viene liberato su forti pressioni degli Usa e di Israele stesso. Georges incarna il punto di giuntura della Resistenza dei prigionieri palestinesi con quella dei detenuti politici qui in occidente, oltre che rappresentare il filo rosso che lega chi resiste armi in pungo nel proprio paese con chi resiste dietro le sbarre.
Le condizioni carcerarie che vive Georges sono quelle tipiche che caratterizzano la detenzione delle avanguardie rivoluzionarie: isolamento, difficoltà dei rapporti con i familiari, diritto alla difesa ostacolato, mancanza di assistenza sanitaria ecc. Le medesime condizioni detentive le ritroviamo anche in Italia, in cui il sistema carcerario è regolato dalla logica della differenziazione, cioè trattamenti diversificati a seconda della tipologia di reato e dell’atteggiamento del detenuto in galera. Lo strumento di massima coercizione e punizione che usa oggi lo stato italiano è l’applicazione dell’articolo 41bis del codice penitenziario, noto come carcere duro. Questo articolo prevede l’isolamento diurno totale del detenuto, un colloquio al mese solo con i familiari stretti, eventualmente sostituito da una telefonata di 10 minuti da carcere a carcere, censura sulla posta e obbligo per il detenuto di assistere al processo in videoconferenza, chiaro attacco al diritto alla difesa, perché con un semplice “clik” questo può essere estromesso dall’udienza. L’articolo 41 bis è stato introdotto con la solita scusa del clima emergenziale, in questo caso a cavallo tra la fine degli anni 80 e l’inizio degli anni 90 contro la criminalità organizzata, ma nel 2005 viene estesa la sua applicazione anche i prigionieri rivoluzionari e oggi si cerca di normalizzare su questo livello l’intero assetto carcerario. Un esempio è dimostrato dal fatto che negli ultimi mesi si è cercato di estendere l’uso della videoconferenza anche a imputati che non sono in 41bis, ad esempio ad alcuni imputati No Tav o ad alcuni detenuti particolarmente attivi nelle lotte in carcere, giustificandone l’utilizzo per ragioni di “sicurezza”. In realtà si tratta di un tentativo di recidere anche ogni legame tra i detenuti e il movimento di solidarietà esterno, che negli ultimi anni ha trasformato le aule di tribunali in momenti di lotta e solidarietà. Dopo l’applicazione dell’articolo 41bis vi sono le sezioni di Alta Sicurezza: AS1 per i reduci del 41bis, AS2 dove sono rinchiusi la maggior parte dei detenuti politici, AS3 per reati di spaccio e micro criminalità organizzata, per poi passare alle sezioni in cui sono detenuti i compagni anarchici, ai trattamenti punitivi, come i trasferimenti, l’uso dell’articolo 14 bis, l’isolamento punitivo, censura sulla posta, problemi con i colloqui sempre più frequenti ecc.
Anche in Italia ci sono detenuti politici. Da un lato i compagni/e che provengono dall’esperienza rivoluzionaria, alcuni dei quali sono detenuti da più di 30 anni assieme ad altri arrestati successivamente nel 2003 (inchiesta per Biagi e D’Antona) o nell’inchiesta che il 12 febbraio 2007 ha portato in carcere 17 compagni con l’accusa di terrorismo e banda armata per aver costituito il Pc p-m. Alcuni di questi compagni sono ancora in carcere nella sezione AS2 di Siano – Catanzaro, lontano 1200 km dai propri affetti e dal proprio contesto di lotta. Compagni che si trovano ancora dietro le sbarre proprio per non aver mai rinnegato o svenduto la loro identità rivoluzionaria e la rivendicazione ai percorsi di lotta intrapresi.
Dall’altro ci sono tutti quei/lle compagni/e di movimento arrestati per avere preso parte a delle lotte, come i No Tav, ai quali si è cercato di dare l’accusa di terrorismo per aver partecipato ad un’azione di sabotaggio di un compressore e che oggi sono detenuti nelle medesime condizioni previste dall’AS2. Questi compagni rappresentano il conflitto di classe in atto, così come i prigionieri storici sono l’espressione tutt’oggi dell’esperienza rivoluzionaria che ha caratterizzato il nostro paese.
Inoltre, le carceri sono sempre più popolate da compagni/e, sicuramente frutto dell’intensificarsi delle mobilitazioni, che entrano in contatto con proletari e sottoproletari che, a causa dall’avanzare della crisi economica, sono costretti a sopravvivere con espedienti che non rientrano nel concetto di legalità borghese. Questo incontro produce anche la possibilità che all’interno delle carceri prendano piede percorsi collettivi di lotta.
Dentro al meccanismo della differenziazione carceraria, si inseriscono anche le carceri in cui vengono detenuti i prigionieri classificati dallo stato come prigionieri islamici, che noi invece consideriamo prigionieri di guerra. Questi sono l’espressione della contraddizione tra imperialismo e lotta di liberazione dei popoli oppressi. Oggi questi detenuti si trovano principalmente nel carcere di Rossano Calabro, sempre in Calabria. In particolare vorremmo ricordare il caso di un prigioniero, Khaled Hussein, compagno palestinese che nel 1985 prese parte al dirottamento della nave da crociera italiana Achille Lauro. L’intento di questa azione era quello di scendere al porto israeliano Ishdud per rapire alcuni soldati e chiedere in cambio la liberazione di alcuni detenuti palestinesi. Nel dirottamento le cose non andarono come previsto e, in seguito a una serie di vicende, Khaled, nel 1991, venne arrestato in Grecia. Successivamente, nel 1996, venne estradato in Italia per essere poi imprigionato. Nel 2009, dopo 13 anni di prigionia, Kheld morirà nel carcere di Benevento, dove si trovava rinchiuso in una sezione speciale, nonostante fosse anziano (aveva 79 anni) e malato.
In fine un’ulteriore analogia che possiamo riscontrare tra il sistema israeliano e quello italiano, sta nella detenzione ammnistrativa. In Palestina, esiste questa forma di detenzione definita amministrativa. Quest’ultima è una pratica del tutto arbitraria, in cui si viene incarcerati senza la formulazione di uno specifico capo di imputazione, senza un regolare processo e per un periodo illimitato di tempo. Una forma analoga la possiamo ritrovare in Italia, con l’istituzione dei Centri di Identificazione ed Espulsione. Strutture nelle quali vengono rinchiusi esclusivamente immigrati, che sono funzionali alle esigenze del mercato del lavoro nero nel nostro paese. Ma in realtà sono anche la reale dimostrazione di come il nostro sia un paese in guerra, che finanzia e partecipa ad alcune missioni militari dislocate in Africa settentrionale e in Medioriente, uniche responsabili dei grossi flussi di immigrati che sbarcano sulle coste italiane. Gli sbarchi sono aumentati proprio dopo l’aggressione alla Libia (complice anche l’Italia) e negli ultimi due anni ad arrivare sulle coste siciliane sono profughi, soprattutto donne, bambini e anziani che scappano da Siria, Palestina, Egitto, Libia ecc., tutti paesi distrutti dalla guerra imperialista o da occupazioni militari. Pensiamo sia importante sostenere tutte le forme di lotta sia dentro che fuori le carceri e riteniamo ancora più importante sviluppare e rilanciare la pratica della solidarietà di classe, sia verso i prigionieri palestinesi, quali baluardo della Resistenza in Medioriente, sia verso tutti coloro che si trovano a pagare il prezzo della lotta con la privazione della libertà. La solidarietà è un forte collante che consente di mettere in connessione tra di loro diverse esperienze, nel tempo e nei luoghi, al fine di rafforzare le lotte, anche diverse tra di loro, di chi ha deciso di alzare la testa e non subire chino l’oppressione e lo sfruttamento di questa società.
Una compagna di Padova dell’Assemblea di lotta “Uniti contro la repressione”
Viareggio 16 agosto 2014